Dan Brown

Origin

Mondadori

Prologo

Sul vecchio treno a cremagliera che arrancava per la vertiginosa salita, Edmond Kirsch osservava la cresta frastagliata sopra di lui. In lontananza, il massiccio monastero di pietra costruito nella parete a picco pareva come sospeso, magicamente fuso con il fianco verticale della montagna.

Quel luogo sacro e senza tempo della Catalogna resisteva da secoli all’inesorabile forza di gravità senza mai sfuggire al suo scopo originario: isolare i religiosi dal mondo moderno.

“Per ironia della sorte, ora saranno i primi a conoscere la verità” pensò Kirsch, chiedendosi quale sarebbe stata la loro reazione. Storicamente, gli uomini più pericolosi sulla terra erano uomini di Dio… specialmente quando qualcuno minacciava le loro divinità. “E io sto per sollevare un vespaio.”

Quando il treno raggiunse la vetta, Kirsch trovò una figura solitaria ad attenderlo sulla banchina: un uomo scheletrico e avvizzito che indossava la tradizionale veste talare paonazza dei vescovi cattolici con rocchetto bianco e lo zucchetto. Kirsch riconobbe i lineamenti ossuti dalle foto che aveva visto di lui e avvertì una inaspettata scarica di adrenalina.

“Valdespino è venuto ad accogliermi di persona.”

Il vescovo Antonio Valdespino era una figura temuta e rispettata in Spagna: non solo amico fidato e consigliere del re, ma uno dei più influenti e accesi difensori dei tradizionali valori cattolici e delle politiche conservatrici.

«Edmond Kirsch, suppongo?» chiese il vescovo appena Kirsch scese dal treno.

«Mi dichiaro colpevole» rispose Kirsch con un sorriso, stringendo la mano ossuta del suo ospite. «Monsignore, desidero ringraziarla per aver organizzato questo incontro.»

«E io le sono grato per averlo richiesto.» La voce del vescovo era più forte di quanto Kirsch si aspettasse, chiara e squillante come il suono di una campana. «Non ci capita spesso di essere interpellati da uomini di scienza, tanto meno da persone del suo calibro. Mi segua, prego.»

Valdespino precedette Kirsch lungo la banchina, e l’aria fredda della montagna gli fece svolazzare la veste talare. «Confesso che lei è diverso da come immaginavo» disse. «Mi aspettavo uno scienziato, ma vedo che lei è piuttosto…» Osservò con un accenno di disapprovazione l’elegante abito Kiton K50 e le scarpe Barker in pelle di struzzo. «Stiloso, credo sia la parola giusta?»

Kirsch rispose con un sorriso garbato. La parola “stiloso” era passata di moda da anni.

«Leggendo l’elenco delle sue imprese» disse il vescovo «non ho ancora ben capito cosa faccia, esattamente.»

«Sono specializzato in teoria dei giochi e modelli informatici.»

«Quindi crea giochi per computer, quelli con cui si divertono i ragazzi?»

Kirsch intuì che il vescovo fingeva di non capire nel tentativo di apparire all’antica. In realtà, Kirsch sapeva che Valdespino era uno studioso assai ben informato di tecnologia, che spesso metteva in guardia gli altri dai suoi pericoli. «No, monsignore, in realtà la teoria dei giochi è un campo della matematica che studia i modelli per formulare previsioni sul futuro.»

«Ah, sì. Mi pare di aver letto che qualche anno fa lei aveva previsto una crisi monetaria europea, giusto? E sebbene nessuno le abbia dato ascolto, ha salvato la situazione inventando un programma informatico che ha fatto resuscitare l’Unione Europea. Come dice quella sua frase famosa? “Ho trentatré anni, la stessa età di Cristo quando ha compiuto la sua resurrezione.”»

Kirsch si schermì, imbarazzato. «Un paragone infelice, monsignore. Ero giovane.»

«Giovane?» Valdespino fece una risatina. «Perché, adesso quanti anni ha… quaranta?»

«Appena compiuti.»

L’anziano vescovo sorrise mentre il vento continuava a gonfiargli la veste. «Be’, gli umili dovrebbero ereditare la terra, e invece è andata ai giovani… a quelli che sanno tutto di tecnologia, che stanno tutto il tempo a guardare uno schermo di computer anziché dentro la propria anima. Devo ammettere che non avrei mai immaginato di avere motivo di incontrare il giovane uomo che guida la carica. La definiscono un “profeta”, sa?»

«Dal suo punto di vista non un buon profeta, monsignore» rispose Kirsch. «Quando ho chiesto se potevo incontrare lei e i suoi colleghi in privato, ho calcolato che c’era solo un venti per cento di possibilità che accettaste.»

«E, come ho detto ai miei colleghi, un devoto può sempre trarre giovamento dal confronto con un non credente. È ascoltando la voce del diavolo che possiamo meglio apprezzare quella di Dio.» Il vescovo Valdespino sorrise. «Scherzo, ovviamente. La prego di perdonare il mio senso dello humour. Sto invecchiando. Di tanto in tanto i miei filtri vengono meno.» Gli fece cenno di proseguire. «Gli altri ci stanno aspettando. Da questa parte, prego.»

Kirsch osservò il luogo in cui erano diretti, un’enorme cittadella di pietra grigia appollaiata sul ciglio di una parete che scendeva a strapiombo per centinaia di metri fino a un lussureggiante tappeto di colline boscose. Impaurito dall’altezza, distolse lo sguardo dal precipizio e seguì il vescovo lungo il sentiero accidentato che costeggiava il bordo del dirupo, concentrandosi sull’incontro che lo aspettava.

Kirsch aveva richiesto un’udienza con tre importanti capi religiosi che avevano appena partecipato a una serie di conferenze in quel monastero.

Il Parlamento delle religioni del mondo.

Fin dal 1893, centinaia di capi spirituali di quasi trenta religioni diverse si riunivano periodicamente, a distanza di qualche anno, in una località sempre diversa per una settimana di dialogo interreligioso. A quegli incontri partecipavano influenti sacerdoti cristiani, rabbini e mullah di tutto il mondo, insieme a pujari induisti, monaci buddisti, giainisti, sikh e altri.

L’obiettivo dichiarato del parlamento era “promuovere l’armonia tra le religioni del mondo, costruire ponti tra le diverse spiritualità e celebrare i punti di incontro di tutte le fedi”.

“Un nobile scopo” pensava Kirsch, pur ritenendolo un futile esercizio… una ricerca senza costrutto di casuali punti di corrispondenza in un’accozzaglia di antichi racconti, favole e miti.

Mentre il vescovo faceva strada sul sentiero, Kirsch guardò giù lungo il versante della montagna, colpito da un pensiero ironico. “Mosè è salito su una montagna per ricevere la parola di Dio… io invece per il motivo opposto.”

A indurlo a salire quella montagna, si era detto Kirsch, era stato un obbligo morale, ma lui sapeva che c’era anche una buona dose di superbia… il desiderio di provare la gratificazione di trovarsi faccia a faccia con quei religiosi e predirne l’imminente scomparsa.

“Vi siete divertiti abbastanza a definire le nostre verità.”

«Ho letto il suo curriculum vitae» disse il vescovo di punto in bianco, lanciando un’occhiata a Kirsch. «Ho visto che ha studiato a Harvard.»

«Sì. Per la laurea di primo livello.»

«Capisco. Ho letto di recente che, per la prima volta nella storia di Harvard, tra i nuovi studenti ci sono più atei e agnostici che non seguaci di una qualsiasi religione. È una statistica assai significativa, signor Kirsch.»

“Sì, significa che i nostri studenti sono sempre più svegli” avrebbe voluto rispondergli Kirsch.

Il vento aveva preso a soffiare più forte quando arrivarono all’antico edificio di pietra. Dentro l’ingresso fiocamente illuminato, l’aria era greve del profumo forte dell’incenso. I due uomini procedettero attraverso un labirinto di corridoi bui, e gli occhi di Kirsch fecero fatica a adattarsi mentre camminava dietro Valdespino. Alla fine arrivarono a una porticina di legno. Dopo avere bussato, il vescovo si chinò ed entrò, facendo segno al suo ospite di seguirlo.

Kirsch varcò la soglia, titubante.

Si ritrovò in una sala rettangolare dalle pareti altissime tappezzate di antichi volumi rilegati in pelle. Altri scaffali si protendevano dalle pareti, simili a costole, inframezzati da radiatori di ghisa che crepitavano e sibilavano, dando l’inquietante sensazione che la stanza fosse viva. Kirsch fece scorrere lo sguardo sulla passerella protetta da una balaustra ornata che girava tutto attorno alla sala a livello del secondo piano e capì con certezza dove si trovava.

“La famosa biblioteca di Montserrat” pensò, sorpreso di esservi stato ammesso. Si diceva che quella stanza sacra custodisse testi unici e rarissimi, accessibili soltanto ai monaci che avevano dedicato la loro esistenza a Dio e che vivevano segregati su quella montagna.

«Lei ha chiesto riserbo» disse il vescovo. «Questo è il nostro luogo più riservato. Pochissimi estranei vi sono mai entrati.»

«Un vero privilegio. La ringrazio.»

Kirsch seguì il vescovo a un grande tavolo di legno a cui erano seduti due uomini anziani. Quello sulla sinistra sembrava logorato dal tempo, con occhi stanchi e una barba bianca arruffata. Indossava un abito nero sgualcito, una camicia bianca e un cappello floscio di feltro.

«Le presento il rabbino Yehuda Köves» disse il vescovo. «È un eminente studioso dell’ebraismo e ha scritto un gran numero di testi sulla cosmologia della cabala.»

Kirsch allungò il braccio sopra il tavolo e strinse educatamente la mano al rabbino. «È un piacere conoscerla» disse. «Ho letto i suoi libri sulla cabala. Non posso dire di averli capiti, ma li ho letti.»

Köves rispose con un affabile cenno del capo, asciugandosi con un fazzoletto gli occhi acquosi.

«E qui» proseguì il vescovo, indicando l’altro religioso «abbiamo l’allamah Syed al-Fadl.»

Lo stimato studioso islamico si alzò e gli rivolse un ampio sorriso. Era basso e tarchiato, con un volto gioviale che mal si accordava con gli occhi scuri e penetranti. Indossava un modesto thawb bianco. «E io, signor Kirsch, ho letto le sue previsioni sul futuro dell’umanità. Non posso dire di condividerle, ma le ho lette.»

Kirsch fece un sorriso garbato e strinse la mano che l’uomo gli porgeva.

«E il nostro ospite, Edmond Kirsch» concluse il vescovo, rivolgendosi ai suoi due colleghi «come sapete, è un apprezzatissimo scienziato, esperto di informatica e teoria dei giochi, inventore e in un certo senso profeta del mondo tecnologico. Vista la sua formazione culturale, sono rimasto sorpreso della sua richiesta di parlare con noi tre. Pertanto, lascerò che sia il signor Kirsch a spiegarci perché è qui.»

Con quelle parole, il vescovo Valdespino prese posto tra i due colleghi, giunse le mani e guardò Kirsch, restando in attesa. I tre uomini lo fronteggiavano come in un tribunale: un’atmosfera che ricordava più l’Inquisizione che un incontro amichevole tra studiosi. Kirsch si rese conto solo in quell’istante che il vescovo non aveva neppure predisposto una sedia per lui.

Più divertito che intimorito, Kirsch osservò i tre anziani religiosi. “Dunque questa è la Santa Trinità che ho chiesto di incontrare. I tre re Magi.”

Concedendosi un momento per affermare la propria autorità, Kirsch andò alla finestra e osservò il panorama mozzafiato. Un mosaico di pascoli antichi illuminati dal sole si estendeva per tutta la vallata profonda fino alle cime frastagliate della catena montuosa di Collserola. Oltre quella, a chilometri e chilometri di distanza, sopra il mare delle Baleari si stava ammassando un banco di minacciose nubi temporalesche.

“Perfetto” rifletté Kirsch, pensando alla tempesta che presto avrebbe scatenato in quella sala e nel mondo intero.

«Signori» attaccò, voltandosi di scatto verso di loro. «Credo che il vescovo Valdespino vi abbia già informato della mia richiesta di segretezza. Prima di proseguire, voglio ribadire che quanto sto per dirvi deve restare strettamente confidenziale. In parole povere vi sto chiedendo di fare voto di silenzio. Siamo intesi?»

I tre annuirono in segno di un tacito assenso, che Kirsch riteneva comunque superfluo. “Vorranno tenere segreta questa informazione… non renderla pubblica.”

«Oggi sono qui» proseguì Kirsch «perché ho fatto una scoperta scientifica che credo troverete sorprendente. È un obiettivo che perseguo da molti anni, nella speranza di fornire risposte a due questioni fondamentali della nostra esperienza umana. Ora che ci sono riuscito, mi rivolgo espressamente a voi perché sono convinto che questa informazione avrà un impatto profondo sui credenti di tutto il mondo, e molto probabilmente provocherà un cambiamento che si può solo definire… dirompente. Al momento, io sono l’unica persona sulla terra in possesso dell’informazione che sto per rivelarvi.»

Infilò una mano nella tasca della giacca ed estrasse un grosso smartphone, che lui stesso aveva progettato e costruito per soddisfare le sue personalissime esigenze. Posò il telefono, che aveva una cover con un mosaico dal colore vivace, sul tavolo davanti ai tre uomini, come fosse un piccolo televisore. Di lì a qualche secondo avrebbe usato il dispositivo per collegarsi a un server ultrasicuro, digitare una password di quarantasette caratteri e mostrare loro la presentazione in streaming.

«Quella che state per vedere» spiegò «è una versione preliminare di un annuncio che spero di condividere con il mondo intero… forse tra un mese. Prima di farlo, però, volevo consultarmi con alcuni tra i più influenti pensatori religiosi per capire come verrà recepita questa notizia da coloro che ne saranno più toccati.»

Il vescovo fece un gran sospiro, più annoiato che preoccupato. «Preambolo interessante, signor Kirsch. Lei parla come se quello che sta per mostrarci potesse scuotere le fondamenta delle religioni del mondo.»

Kirsch si guardò attorno nell’antico archivio di testi sacri. “Non si limiterà a scuotere le vostre fondamenta. Le farà crollare.”

Osservò gli uomini che aveva davanti. Quello che non sapevano era che, di lì a tre giorni, lui avrebbe reso pubblica la sua presentazione nel corso di uno straordinario evento la cui coreografia era stata meticolosamente preparata. E allora il mondo intero avrebbe capito che gli insegnamenti di tutte le religioni avevano davvero una cosa in comune.

Erano clamorosamente sbagliati.

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Il professor Langdon sollevò lo sguardo verso il cane alto una quindicina di metri seduto nella piazza. Il pelo dell’animale era un tappeto vivente d’erba e fiori profumati.

“Io ce la sto mettendo tutta per trovarti bello” pensò. “Ci sto davvero provando.”

Osservò la creatura ancora per qualche istante, poi proseguì lungo una passerella sospesa e scese una larga rampa di scalini la cui superficie discontinua aveva lo scopo di costringere il visitatore ad alterare il ritmo dell’andatura. “E ci riesce benissimo” decise Langdon, rischiando di cadere per ben due volte sui gradini irregolari.

Arrivato in fondo alla scalinata, si fermò di botto, fissando l’enorme oggetto che incombeva minaccioso più avanti.

“Ora posso dire di averle viste proprio tutte.”

Davanti a lui si ergeva un ragno gigantesco, una vedova nera, le cui sottili zampe di ferro sostenevano un corpo tondeggiante a un’altezza di almeno dieci metri. Sotto l’addome del ragno era sospeso un sacco ovigero di rete metallica pieno di sfere di vetro.

«Si chiama Maman» disse una voce.

Langdon abbassò lo sguardo e vide un uomo snello in piedi sotto il ragno. Indossava uno sherwani di broccato nero e sfoggiava un paio di baffi arricciati alla Salvador Dalí al limite del ridicolo.

«Mi chiamo Fernando» proseguì l’uomo «e sono qui per darle il benvenuto al museo.» Esaminò una serie di targhette di riconoscimento posate sul tavolo davanti a lui. «Posso avere il suo nome, per favore?»

«Certamente. Robert Langdon.»

L’uomo alzò lo sguardo di scatto. «Ah, mi scusi! Non l’avevo riconosciuta, signore!»

“Faccio fatica a riconoscermi io” pensò Langdon, avanzando impacciato in frac nero con farfallino e gilet bianchi. “Sembro un Whiffenpoof.” Il classico frac di Langdon aveva quasi trent’anni e risaliva ai tempi in cui lui era membro dell’Ivy Club di Princeton ma, grazie al costante regime di nuotate quotidiane, gli andava ancora alla perfezione. Nella fretta di fare i bagagli, aveva preso il portabiti sbagliato dall’armadio, lasciando a casa lo smoking che indossava di solito in quelle occasioni.

«L’invito diceva “bianco e nero”. Spero che il frac sia adatto.»

«Il frac è un classico! Lei è elegantissimo!» L’uomo gli si avvicinò a passi svelti e gli appiccicò una targhetta con il nome sul risvolto della giacca. «È un onore conoscerla, signore» aggiunse. «Sicuramente sarà già stato da noi?»

Langdon osservò da sotto le zampe del ragno l’edificio scintillante davanti a loro. «In realtà mi vergogno a dirlo, ma non ci sono mai stato.»

«No!» L’uomo finse di cadere all’indietro. «Non è un amante dell’arte moderna?»

Langdon aveva sempre apprezzato la sfida dell’arte moderna… in particolare gli piaceva cercare di capire il motivo per cui determinate opere erano considerate dei capolavori: i quadri di Jackson Pollock realizzati con la tecnica del dripping, i barattoli di zuppa Campbell di Andy Warhol, i semplici rettangoli di colore di Mark Rothko. Detto questo, Langdon si sentiva molto più a proprio agio a discutere del simbolismo religioso di Hieronymus Bosch o delle pennellate di Francisco Goya.

«Ho gusti più classici» rispose. «Me la cavo meglio con da Vinci che con de Kooning.»

«Ma da Vinci e de Kooning sono così simili

Langdon sorrise, paziente. «Allora è evidente che ho parecchio da imparare su de Kooning.»

«Be’, è nel posto giusto!» L’uomo indicò con il braccio l’enorme edificio. «In questo museo troverà la miglior collezione d’arte moderna sulla terra! Spero se la goda.»

«È quello che intendo fare» rispose Langdon. «Vorrei solo sapere perché mi trovo qui.»

«Lei come tutti gli altri!» L’uomo si fece una bella risata, scuotendo la testa. «Il suo ospite è stato molto misterioso sullo scopo dell’evento di questa sera. Neppure il personale del museo sa cosa succederà. Il mistero è metà del divertimento… Girano un sacco di voci! Ci sono centinaia di ospiti dentro, molte facce famose, e nessuno ha la minima idea di cosa ci aspetti stasera!»

Langdon sorrise divertito. Poche persone al mondo avrebbero avuto la sfrontatezza di spedire degli inviti all’ultimo minuto dicendo in sostanza: “Presentati qui sabato sera. Fidati di me”. E ancora meno sarebbero riuscite a convincere centinaia di VIP a mollare tutto e a saltare su un aereo per il Nord della Spagna per partecipare all’evento.

Langdon uscì da sotto il ragno e proseguì lungo la passerella, alzando lo sguardo verso un enorme striscione rosso che sventolava sopra di lui.

UNA SERATA
CON EDMOND KIRSCH

“A Edmond è sempre piaciuto mettersi in mostra” pensò, divertito.

Una ventina di anni prima, il giovane Eddie Kirsch era stato uno dei primi studenti di Langdon all’università di Harvard… un ragazzo con una zazzera ribelle, appassionato di computer, il cui interesse per i codici lo aveva portato a iscriversi al seminario di Langdon per gli studenti del primo anno: “Codici, cifrari e il linguaggio dei simboli”. Langdon era rimasto profondamente colpito dalla finezza intellettuale di Kirsch e, nonostante alla fine il giovane avesse abbandonato il mondo polveroso della semiotica per la promessa di un brillante futuro nel mondo dell’informatica, tra i due si era venuto a creare un legame studente-insegnante che li aveva tenuti in contatto per vent’anni, dopo che Kirsch si era laureato.

“Ormai l’allievo ha superato il maestro” pensò Langdon. “E di parecchi anni luce.”

Ora Edmond Kirsch era un miliardario noto in tutto il mondo, un guru dei computer, futurologo, inventore, un imprenditore che agiva fuori dagli schemi. A quarant’anni aveva già ideato un’incredibile quantità di tecnologie avanzate che rappresentavano un enorme balzo in avanti in diversi campi quali robotica, neuroscienze, intelligenza artificiale e nanotecnologie. E le sue accurate previsioni sulle future scoperte scientifiche avevano creato intorno a lui un’aura mistica.

Langdon sospettava che l’insolito talento di Edmond per le previsioni derivasse dalla sua vastissima conoscenza del mondo. Era sempre stato un insaziabile bibliofilo, e leggeva tutto quello che gli capitava sotto mano. Langdon non aveva mai incontrato nessuno che avesse la sua passione per i libri e la sua capacità di assimilarne il contenuto.

Negli ultimi anni Kirsch aveva vissuto principalmente in Spagna, attribuendo questa scelta al fatto di essersi innamorato del suo fascino da Vecchio Mondo, dell’architettura d’avanguardia, degli stravaganti cocktail bar e del clima perfetto.

Una volta all’anno, quando Kirsch tornava a Harvard per parlare al Media Lab dell’MIT, Langdon lo raggiungeva per pranzare in uno dei nuovi ristoranti alla moda di Boston di cui lui non conosceva neppure l’esistenza. Non parlavano mai di tecnologie: con lui Kirsch voleva discutere solo di arte.

“Tu sei il mio filo diretto con la cultura, Robert” diceva spesso Kirsch, ridendo. “Le arti sono il tuo unico amore!”

Quella frecciata scherzosa sul celibato di Langdon era particolarmente ironica, visto che a pronunciarla era uno scapolo impenitente, uno che stigmatizzava la monogamia in quanto “affronto all’evoluzione” e che nel corso degli anni era stato fotografato in compagnia di una serie infinita di top model.

Considerata la sua reputazione di innovatore nel campo delle scienze informatiche, si sarebbe potuto pensare che Kirsch fosse un asociale come lo sono tanti techno-nerd. Invece si era creato un’immagine da moderna icona pop: si muoveva a proprio agio nel mondo delle celebrità, vestiva all’ultimissima moda, ascoltava arcana musica underground e amava collezionare preziosissime opere che andavano dall’impressionismo all’arte contemporanea. Spesso Kirsch contattava Langdon per e-mail per chiedergli consiglio su nuovi pezzi che intendeva acquisire per la sua collezione.

“E poi fa l’esatto contrario” rifletté Langdon.

Circa un anno prima, Kirsch lo aveva sorpreso ponendogli delle domande non sull’arte ma su Dio, un argomento molto strano per uno che si autoproclamava ateo. Davanti a un piatto di costolette al Tiger Mama di Boston, Kirsch gli aveva chiesto lumi sui principi fondanti delle varie religioni del mondo, in particolare sulle differenti teorie della Creazione.

Langdon gli aveva fornito una panoramica completa delle diverse credenze a partire dalla storia della Genesi condivisa da ebraismo, cristianesimo e islam, fino alla storia induista di Brahma, quella babilonese di Marduk e altre.

“Toglimi una curiosità” aveva detto Langdon mentre uscivano dal ristorante. “Come mai un futurologo è tanto interessato al passato? Significa forse che il nostro famoso ateista ha finalmente trovato Dio?”

Edmond si era fatto una bella risata. “Ti piacerebbe! Sto soltanto valutando il mio avversario, Robert.”

“Tipico” aveva pensato Langdon con un sorriso, e poi aveva aggiunto: “Be’, la scienza e la religione non sono rivali, sono solo due lingue diverse che cercano di narrare la stessa storia. Al mondo c’è spazio per entrambe”.

Dopo quell’incontro, Edmond non si era più fatto sentire per quasi un anno. Poi, inaspettatamente, tre giorni prima Langdon aveva ricevuto una busta della FedEx con dentro un biglietto aereo, una prenotazione d’albergo, e un invito scritto a mano da Edmond per partecipare all’evento di quella sera. “Robert, significherebbe molto per me se tu, più di ogni altro, potessi venire. Le idee che mi hai esposto nel corso della nostra ultima conversazione hanno contribuito a rendere possibile questa serata.”

Langdon era sconcertato. Niente di quella conversazione sembrava avere la minima rilevanza per un evento organizzato da un futurologo.

La busta della FedEx conteneva anche un’immagine in bianco e nero di due persone, una di fronte all’altra. Kirsch vi aveva aggiunto un breve messaggio in rima.

Robert,

quando ci vedremo viso a viso,

ti svelerò il vuoto all’improvviso.

Edmond

Immagine ambigua in cui si possono distinguere due profili umani neri che si guardano su sfondo bianco, oppure la sagoma di un calice bianco su sfondo nero.

Langdon aveva sorriso nel vedere l’immagine, una chiara allusione a un episodio in cui lui era stato coinvolto parecchi anni prima. Nello spazio vuoto tra i due volti compariva la sagoma di un calice, o il Santo Graal.

Ora Langdon si trovava fuori da quel museo, impaziente di scoprire cosa stesse per annunciare il suo ex studente. Una leggera brezza gli agitò le code del frac mentre avanzava lungo il vialetto di cemento che seguiva il percorso tortuoso del fiume Nervión, un tempo linfa vitale di una prospera città industriale. L’aria aveva un vago odore metallico.

Svoltata una curva del vialetto, si concesse finalmente di osservare l’enorme museo scintillante. Era impossibile cogliere la struttura nella sua interezza in un unico sguardo. I suoi occhi si spostarono avanti e indietro, soffermandosi sulle bizzarre forme allungate.

“Questo edificio non si limita a infrangere le regole” rifletté Langdon. “Le ignora del tutto. Una location perfetta per uno come Edmond.”

Il museo Guggenheim di Bilbao sembrava frutto dell’allucinazione di un alieno: una dinamica aggregazione di forme metalliche ricurve che parevano essere state addossate l’una all’altra in maniera quasi casuale. La massa caotica di volumi che si estendeva nello spazio era rivestita da più di trentamila lastre di titanio che luccicavano come scaglie di pesce e conferivano alla struttura un’aria organica e al tempo stesso extraterrestre, come se un futuristico mostro marino fosse strisciato fuori dall’acqua per prendere il sole sulla riva del fiume.

Quando il museo era stato inaugurato, nel 1997, il “New Yorker” aveva osannato il suo progettista, l’architetto Frank Gehry, per aver creato “una fantastica nave dei sogni dalla forma ondulata ammantata di titanio”, mentre altri critici sparsi per il mondo proclamavano entusiasti: “Il più grande edificio del nostro tempo!”, “Folle e geniale!”, “Una sbalorditiva prodezza architettonica!”.

Dal debutto del museo, erano state costruite decine di altri edifici “decostruzionisti”: il Disney Concert Hall a Los Angeles, il BMW Welt a Monaco e persino la nuova biblioteca dell’università in cui aveva studiato Langdon. Tutti presentavano una concezione progettuale e costruttiva decisamente non convenzionale, ma Langdon pensava che nessuno potesse competere con il Guggenheim di Bilbao in termini di potenza provocatoria.

Mentre lui si avvicinava, la superficie coperta di lastre sembrava trasformarsi di continuo, presentando un volto diverso a ogni cambio di angolazione. A un certo punto comparve l’illusione ottica più d’effetto del museo: da quella prospettiva, la colossale struttura pareva letteralmente galleggiare sull’acqua, alla deriva su un piccolo lago artificiale a sfioro che lambiva le pareti esterne dell’edificio.

Langdon si fermò un momento a osservare meravigliato quella suggestione, quindi si accinse ad attraversare il lago tramite il ponte minimalista che descriveva un arco sopra la distesa d’acqua immobile. Era arrivato solo a metà quando un violento sibilo, proveniente da sotto i suoi piedi, lo fece trasalire. Si fermò di colpo, un attimo prima che grandi volute di vapore cominciassero a gonfiarsi da sotto la passerella. La spessa coltre di nebbia si levò tutto attorno a lui, poi si riversò sul lago, rotolando verso il museo e avvolgendo l’intera base della struttura.

“La Fog Sculpture” pensò Langdon.

Aveva letto di quell’opera dell’artista giapponese Fujiko Nakaya. La “scultura di nebbia” era rivoluzionaria in quanto utilizzava come mezzo espressivo l’aria resa visibile, un muro di nebbia che si materializzava e col tempo si disperdeva; e poiché il vento e le condizioni atmosferiche mutavano da un giorno all’altro, la scultura era diversa ogni volta che compariva.

Il sibilo cessò e Langdon vide il muro di nebbia posarsi silenzioso sul lago, ora strisciando ora rotolando, quasi mosso da una volontà propria. L’effetto era al tempo stesso fantastico e sconcertante. Ora il museo pareva librarsi sull’acqua, come appoggiato su una nuvola… una nave fantasma alla deriva.

Proprio quando Langdon stava per incamminarsi di nuovo, la superficie tranquilla dell’acqua fu scossa da una serie di piccole eruzioni. All’improvviso cinque colonne fiammeggianti si alzarono verso il cielo, accompagnate da un rombo simile a quello del motore di un razzo, squarciando l’aria densa di nebbia e proiettando lampi di luce sulle piastre di titanio del museo.

Langdon propendeva più per l’architettura classica di musei tipo il Louvre o il Prado ma, mentre osservava la nebbia e le fiamme sopra il lago, non avrebbe saputo pensare a un luogo più adatto di quel museo ultramoderno per ospitare un evento organizzato da un uomo che amava l’arte e l’innovazione, e che riusciva a guardare nel futuro con tanta lucidità.

Avanzando attraverso la nebbia, Langdon proseguì verso l’ingresso del museo, un inquietante buco nero nella struttura serpeggiante. Avvicinandosi alla soglia, ebbe la sgradevole sensazione di entrare nella bocca di un drago.

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

Traduzione di Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli

Copyright © 2017 by Dan Brown

© 2017 Mondadori Libri S.p.A., Milano

Titolo dell’opera originale: Origin

I edizione ottobre 2017